PIANTE VELENOSE DELLA FLORA ALPINA ITALIANA
La flora italiana è la più ricca in specie a livello europeo, grazie anche alla notevole diversità degli habitat presenti: fra le oltre 5500 specie presenti in Italia molte sono velenose (anche mortali) o tossiche per l’uomo, e diverse di queste le possiamo trovare negli ambienti collinari e di montagna che percorriamo quotidianamente. Il presente articolo non vuol essere un elenco completo di queste piante o una classifica di quali siano quelle più velenose (potete trovare molte altre informazioni sul web), ma riprendere quelle che più si incontrano durante le nostre escursioni e che risultano facilmente riconoscibili.
La prima pianta da citare è senza dubbio l’aconito napello (Aconitum napellus), pianta bellissima ma al tempo stesso una fra le più velenose della flora italiana. In caso di ingestione i sintomi si manifestano in breve tempo, con bruciore alla bocca, vomito, diarrea, sudorazione, fino ad arrivare alla paralisi degli arti, perdita della conoscenza, variazione del ritmo e respirazione difficile. L’evoluzione dei sintomi è molto rapida, fino a portare in poche ore al coma ed anche alla morte. Occorre prestare molta attenzione, specie con i bambini, in quanto si sono registrati casi di intossicazione anche solo per aver portato le mani alla bocca dopo aver toccato la pianta: ricordiamo sempre che i principi attivi delle piante sono molto più pericolosi nei bambini, in quanto avendo una massa corporea inferiore si ha una maggiore concentrazione di sostanze velenose. L’aconito napello veniva anticamente usato per avvelenare le punte delle lance, così come l’altro comune aconito vulparia (Aconitum vulparia o Aconitum lycoctonume subsp. vulparia), chiamato anche aconito strozzalupo, veniva utilizzato un tempo per fare dei bocconi per avvelenare i grandi carnivori (lupo e volpe soprattutto). Tutti gli aconiti appartengono alla famiglia delle Ranuncolaceae (ricca in specie tossiche), sono piante perenni, fioriscono in genere fra luglio ed agosto e sono tipiche dei pascoli alpini, della aree attorno alle malghe o in altre zone in cui il terreno è ricco di azoto. Simili agli aconiti, e sempre della famiglia delle Ranuncolaceae, sono i Delphinium spp. (chiamati comunemente speronella), anch’essi velenosi, ma meno comuni rispetto all’aconito.
Restando in tema di piante un tempo utilizzate per avvelenare gli animali selvatici vi è da citare l’uva di volpe (Paris quadrifolia). Un tempo ricompresa nella famiglia delle Liliaceae (ricca anch’essa di piante tossiche), ora è inserita in una specifica famiglia (Melanthiaceae). Anch’essa è una pianta erbacea perenne, alta circa 40 cm, in fioritura fra giugno e luglio, ben riconoscibile per le quattro foglie terminali in alto (da cui deriva il nome sia del genere Par: pari, per la regolarità del fiore, sia della specie quadrifoglia). Il fiore terminale è unico, da cui poi si forma il frutto: una caratteristica bacca rotonda di colore blu, spesso scambiata per un frutto edibile, ma che può portare a gravi intossicazioni. Si trova facilmente nei boschi ombrosi ed umidi, abbastanza comune in tutto il territorio, dalla pianura fino ai 2000 m. Anch’essa veniva usata per fare dei bocconi avvelenati per le volpi (da cui deriva il nome comune in italiano).
Altra pianta particolarmente velenosa, ed i cui fiori sono molto belli, è la digitale (Digitalis sp.), di cui esistono differenti specie, tutte con principi attivi cardiotonici altamente tossici (in dosaggi differenti a seconda delle specie). Fra queste da citare la Digitalis purpurea, a cui Giovanni Pascoli ha dedicato una poesia, presente nelle schiarite dei boschi in terreni silicei ricchi di humus, e la Digitalis grandiflora, presente sempre in boschi radi di latifoglie, radure sassose, dalla pianura fino ai 1600-1800 m, entrambe in fioritura fra giugno ed agosto. Una digitale è anche quella ritratta da Vincent Van Gogh nel suo celebre quadro ‘Ritratto del dottor Gachet‘, a testimonianza dell’antico uso fitoterapico di questa pianta.
Anche la belladonna (Atropa belladonna) è stata da sempre utilizzata a livello fitoterapico, in piccolissime dosi, il cui principio attivo (atropina, dal nome della specie) veniva utilizzata come spasmolitico, ed al tempo stesso risulta essere un potente antidoto contro le intossicazioni. Serve però tenere ben a mente che tutta la pianta è velenosa, in particolar modo le bacche: l’ingestione di anche solo 2-3 di esse portano in breve tempo al coma ed alla morte. I sintomi di avvelenamento sono quelli del vomito, secchezza in bocca, sensibilità delle pupille alla luce, prurito, allucinazioni. Rispetto alle altre piante viste fino ad ora è più rara, presente in tutto il territorio italiano, dalla pianura ai 1400 m circa, in boschi o nelle radure di questi, generalmente su terreni sabbiosi ed argillosi. Fiorisce fra giugno e settembre.
La cicuta (Conium maculatum) è un’altra di quelle piante famose per il suo veleno, usato anticamente dai greci per preparare la pozione dei condannati a morte. Questa pianta appartiene alla famiglia delle Apiaceae (un tempo erano classificate come Ombrellifere), che ricomprende anche molte specie utilizzate in cucina (prezzemolo, finocchio, carota, coriandolo e molte altre), e che non sono sempre di facile classificazione ad un occhio non esperto: questo è uno dei chiari esempi in cui non si dovrebbe mai utilizzare una pianta selvatica se non si è certi di conoscerla bene. La cicuta è presente in tutta Italia, localmente anche molto comune, in aree di macerie, sassi, prati, dalla pianura fino ai 1500 m. Ha un odore fetido, che in parte potrebbe aiutare il riconoscimento, così come il fusto glabro è spesso chiazzato ed arrossato nella parte inferiore (da cui il nome della specie, maculatum).
Una pianta comunissima nei pascoli alpini è il veratro (Veratrum album), che essendo tossica non viene brucata dalla maggior parte degli animali al pascolo ed è libera di crescere e fiorire. Un tempo era comune che il pastore dell’alpeggio togliesse queste piante, che se lasciate crescere ed andare a seme tendono ad infestare i prati. E’ una pianta appartenente alla famiglia delle Liliaceae (che come detto è ricca di specie tossiche), anche se secondo alcuni sarebbe da inserire nella famiglia delle Melanthiaceae (assieme alla Paris quadrifolia – uva di volpe, vista prima). Le intossicazioni registrate sono tutte dovute al fatto che essa può essere confusa con alcune genziane presenti nello stesso habitat (Gentiana lutea e Gentiana punctata): di queste ultime viene presa la radice ingrossata per fare la grappa di genziana (in ‘barba’ alla legge: ricordo esserne vietata la raccolta). Spesso il veratro e le genziane sopra riportate sono presenti, anche vicine, nello stesso habitat (vedi foto), e non è raro che vengano scambiate fra loro, anche perché spesso si raccolgono nel periodo di riposo vegetativo (da ottobre a marzo). Facendo più attenzione si potrebbe distinguerle osservando le foglie, anche se secche: infatti il veratro ha foglie alterne, cioè disposte su livelli differenti, mentre le genziane hanno foglie opposte, cioè inserite sul fusto allo stesso livello, due a due.
Altra liliacea altamente tossica, con esiti anche mortali, è il colchico autunnale o falso zafferano (Colchicum autumnale), da non confondere assolutamente con il croco primaverile (Crocus albiflorus) o con quello coltivato, chiamato comunemente zafferano (Crocus sativus): il colchico autunnale infatti, come dice il nome stesso, fiorisce in autunno, dalla fine di agosto fino a novembre. E’ una pianta perenne, con un bulbo sotterraneo, da cui ogni anno nascono i fiori e le foglie, presente dalla collina fino ad oltre 2000 m di quota. L’energica azione purgativa è la prima manifestazione di avvelenamento, accompagnata poi da bruciore alla gola, sete intensa, disturbi gastrici, emorragia fino ad arrivare alla morte. Per capire la forte nocività di questa pianta basti pensare che gli effetti tossici si riscontrano già solo portando alla bocca le dita dopo aver manipolato gli stami dei fiori.
Meno tossici ma molto comuni sono gli ellebori (Helleborus spp.) e molte altre Ranuncolacee, fra cui la calta palustre (Caltha palustris), comune nei sottoboschi vicino a fonti di acqua, o la clematide (Clematis spp.), piante rampicanti dai fiori e semi caratteristici, od ancora il botton d’oro (Trollius europaeus), abbondante nei pascoli alpini, così come molte altre piante delle famiglia delle Liliaceae, fra cui le diverse specie di Sigillo di Salomone (Polygonatum spp.) o il mughetto (Convallaria majialis).
Fra le piante ad alto fusto vale la pena citarne due: il maggiociondolo (Laburnum sp) ed il tasso. Al primo ho dedicato un apposito articolo nel sito (http://www.ledolomitiraccontano.it/il-maggiociondolo-alpino-laburnum-alpinum/), ma serve senz’altro ribadirne la forte tossicità, che può essere anche letale, così come altamente velenoso e mortale è il tasso (Taxus baccata). Pianta fra le più longeve in assoluto, utilizzata anticamente per la fabbricazione di archi, vive in ambienti di forra, sui versanti ombreggiati ed umidi. E’ altamente velenoso in tutte le sue parti, ad eccezione dell’arillo (quello che sembra un frutto, ma che in realtà è la parte carnosa esterna del seme), probabilmente un adattamento per permettere la disseminazione dei semi, che sono anch’essi molto velenosi. Altra caratteristica particolare del tasso è che si tratta di una pianta dioica, cioè di piante che portano o solo i fiori maschili o solo quelli femminili.
Concludendo questa breve carrellata di piante velenose comuni nelle nostre prealpi e alpi, non possiamo che consigliare vivamente di osservare e fotografare molto bene tutti i fiori che incontriamo nelle nostre passeggiate, ma evitiamo accuratamente di toccarle, se non siamo certi delle loro proprietà. Attenzione anche all’utilizzo di queste e molte altre piante, indicate come fitoterapiche ed utilizzate spesso in omeopatia, in quanto l’utilizzo per tali scopi avvengono a bassissime concentrazioni di principi attivi, ricavabili solo in laboratorio: ne è quindi vivamente sconsigliato l’uso medicale ‘fai da te’.